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"AUTUNNO" foto di Attilio Pietrogiovanna

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martedì 11 dicembre 2012

IL VECCHIO E IL BAMBINO



di Vincenzo Agostini

Felice campava, da solo, dentro una casa con un paio di camere, un ripostiglio e una latrina di legno appiccicata al muro esterno della cucina. Di fronte, oltre la valle, come una invadente vici
na di casa, la Civetta si sollevava dal bosco e gli incuteva una paura gelida come i pennacchi di nuvole e di vento che tutti i giorni le straventavano la cima.
Anche se lunghi capelli bianchi gli inondavano il colletto della camicia, anche se la pelle gli si era raggrinzita sul viso che pareva di cuoio, anche se le mani gli tremolavano come i rami di un pino mugo, Felice non si sentiva affatto vecchio. Vecchi, rifletteva fra sé, sono coloro che non hanno più niente da dire mentre io, se Iddio mi dà la grazia, ho tante cose, ancora, da raccontare.
Il Felice andava spesso a trovarlo il Carlo, un ragazzino che era un cespuglio di capelli rossi sovrastanti un viso pieno di lentiggini. Quando i suoi genitori non gli badavano, e a volte succedeva, Carlo bussava alla sua porta, entrava senza far rumore, si sedeva e ascoltava storie di vita e di malaffare, storie di ventura e, quasi sempre, storie di una guerra che il vecchio Felice raccontava di aver combattuto tanto tempo fa; e per fortuna che era sopravvissuto.
Felice, quando un giorno gli parve di avvistare sopra la cima di un abete un lancinante riverbero di luce, – era stata quasi una saetta interrotta, lo scoccare di un momento subito sparito - comprese che era arrivata la sua ora. E aveva ragione perché, ancora una volta, il sole stava scoppiettando con la morte, allo stesso modo di quando, sul cielo del Col di Lana, migliaia di riflessi barluminavano come luci di mille spade, nel mentre i suoi commilitoni combattevano e morivano sul campo di battaglia.
Il giorno dopo Felice, a Carlo che era venuto a trovarlo, disse che non aveva più storie da raccontargli. Basta, che era tutto finito! Segnò per aria una croce con la mano e aggiunse che dovevano recarsi urgentemente sulla cima del Col Vege. Mise nello zaino un pane di segala, del burro, una borraccia di legno piena di acqua e partirono mano nella mano, l’una morbida come il velluto e l’altra dura come la crosta della polenta.
Dopo aver superato prati di mille colori e boschi neri come la pece, in cima, Felice raccolse una nigritella, la respirò a pieni polmoni e se la infilzò sul cappello di peltro. Raccolse anche dei garofani selvatici, li fece a mazzetto e glieli diede a Carlo nel mentre si sedeva accanto a lui.

Carlo, dimmi cosa vedi.
Beh – rispose Carlo – io vedo le montagne. Guardò Felice perché voleva sapere se aveva detto bene e, poiché il vecchio assentiva, aggiunse che vedeva il Versàl, il Pelmo, la Civetta, l’Agnér, la Marmolada, il Piz Boé e perfino il Col di Lana.
E poi, cosa vedi ancora? – disse Felice.
Carlo, credendo che il vecchio si riferisse alle cime meno importanti, disse che vedeva anche la piana di Mondevàl, la Puìna, il Crot, Fertazza, il Sasso Bianco, le Creste dei Migogn e, nascosto laggiù, il Padòn.
Bravo, disse Felice, sei proprio bravo. Ma dimmi, cosa vedi, ancora?
Carlo fece due occhi grandi così, e azzurri, perché non aveva ancora capito cosa il vecchio stesse cercando. Allora si guardò intorno, lentamente.
Vedo anche il Pòre, alle mie spalle.
Va bene, va bene, disse il vecchio Felice, e dopo?
Carlo si stava stufando, anche perché aveva capito che Felice non lo avrebbe mai lasciato vedere quello che soltanto lui, il vecchio, voleva fargli vedere.
Dai, ancora uno sforzo – insistette l’uomo con voce suadente. Guarda meglio.
Carlo osservò per terra e rispose che vedeva il Col Vege, vecchio come lui, dove stavano seduti. Accarezzò una ciocca d’erba aspettando che Felice gli dicesse bravo.
C’è ancora qualcosa che non hai visto – disse il vecchio. Devi guardare meglio!
Carlo rimase immobile, in silenzio. Lasciò trascorrere qualche minuto e fece di no con la testa, deluso perché non aveva visto niente di nuovo.
Allora il vecchio Felice si strinse a Carlo che gli sentì addosso l’odore del tabacco. I baffi gialli di nicotina gli tremolavano sopra le labbra che gli si erano fatte secche. Poi si tolse la nigritella dal cappello e la depositò per terra insieme a due stelle alpine.

Caro bambino mio, disse il vecchio dopo aver appoggiato il mento sulle ginocchia, ché stava guardando nel cielo come sulla terra. Tu non hai visto la cosa più importante, che sono gli uomini. Gli uomini e tutto quello che hanno fatto, aggiunse sospirando verso il cratere della cima del Col di Lana. Oggi, siccome è l’ultima volta che ci vediamo, ti dico soltanto questo: di non credere a coloro che vogliono salirci, sulle montagne. Da lassù, dove le cime sono disabitate, non si vede niente di nuovo; e poi, come tu stesso hai potuto constatare, da lassù si perde la giusta proporzione delle cose. Le montagne, aggiunse Felice alzandosi perché la storia era finita, occorre accontentarsi di guardarle da lontano, da sotto in su, dove la prospettiva è migliore. Occorre guardarle da lontano, disse mettendosi una mano sul cuore, anche perché quando uno va, non lo soffochi la nostalgia.
Felice fece silenzio. Una lacrima gli era spuntata da una palpebra e gli aveva tracciato una riga sul mento. Raccolse la nigritella, le stelle alpine e il mazzetto di garofani selvatici che aveva dato al bambino; e insieme ne fece un miscuglio di fiori secchi.
Andiamo disse Felice con la voce rotta dall’emozione, scendiamo che è meglio. Il vecchio e il bambino si diedero la mano ed erano due mani calde che custodivano una polvere di fiori e che, camminando, lasciarono cadere lungo la strada affinché di loro rimanesse traccia. E fu così che il Felice, accompagnato da un bambino, lentamente, se ne andò a morire.

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